È probabile, ma non scontato, che, nella voracia con cui ha ingoiato riviste e pieghevoli, deglutito documentari da edicola, macinato opinioni e ipotesi altrui qua e là nella Rete, l’Italiano – sia esso gitante semplice o Grande Avventuriero, studente di lingue vikinghe o ricercatore in fuga dalla nostrana indigenza –, alla vigilia della sua partenza per la Svezia, possa essersi imbattuto nell’opera dell’onesto Luigi Scattini, Svezia, Inferno e Paradiso: ebbene, mai titolo fu più azzeccato, perché la Svezia è proprio questo, un Paradiso e un Inferno...

mercoledì 17 ottobre 2007

Costume II - Il Sacco di Nacka

    Vi sono delle volte in cui mi sveglio, e, senza sapere bene che giorno sia, esco di casa. Ancora intorpidito, fatico a tenere gli occhi aperti; la luce e l’aria fesca mi fanno talora lagrimare, mentre mi stiracchio e claudico ai primi passi nel vialetto. In strada qualcosa però non torna: non v’era forse fino a ieri un bel divieto di sosta, torreggiante placido sul quel palo lì all’angolo (mi pare quasi disdicevole, quel palo ora ignudo, fu alabardiero della ragion di Strada)? E perché quella transenna, che se non erro villeggiava da tempo imprecisato tra i cespugli della rotonda, indugia ora oziosa in mezzo alla corsia? Sta forse improvvisando una serrata anticarro? Perplesso mi figuro che essa voglia per così dire proteggere quegli spartitraffico che, un tempo allineati con perizia lungo il ciglio stradale, solevano scoraggiare il parcheggio in pieno cantiere, e che giaciono ora qua e là ad onta e sprezzo degli automobilisti. Ma quella non è la rete del parcheggio del supermercato? Languisce estenuata, supina sull’asfalto dirimpetto all’ospedale, e con quella canaglia del cassonetto per di più! Insomma, Sodoma e Gomorra, Woodstock e Caporetto, il tutto alle undici di mattina di un normale... Confesso di non aver ancora capito che giorno sia, ma ho i miei sospetti: comincio a congetturare, e avanzo, così assorto, sino alla fermata dell’autobus dietro l’angolo, ma trasalisco quando, pensandomi al riparo della pensilina, un’auretta gelida m’investe. Che il vento si sia fatto più callido stamane? Non dovrebbe la pensilina provvedere a proteggermi e vezzeggiarmi, a consolarmi e magari intrattenermi nello spleen dell’attesa del prossimo autobus? Mi volto allora, stizzito, verso il vetro, e noto che il vetro oggi non c’è. Ei fu. Ne rimane un cumulo di cocci, migliaia e tutti di uguale misura, assembrati nottetempo da un qualche fulgido netturbino. L’autobus arriva con lodevole puntualità, e una volta a bordo decido di mettermi comodo agli ultimi posti. Ma quel che trovo oggi è un vero salotto! Ho tutto lo spazio di scivolare, accavallare le gambe e sbracarmi; una vera pacchia: ma che succede? Oggi manca una coppia di sedili (hanno forse fatto fuitina?); cerco spiegazioni ma i sedili restanti si chiudono in omertoso silenzio; del resto hanno una pessima cera, a quasi tutti manca qualcosa, un bracciale, l’imbottitura, la tappezzeria, portano orrendi tatuaggi e dissimulano – male – birre vuote, cartacce, pezzi di salsiccia. Ma l’immancabile rigurgito essiccato che uno di essi tentava di nascondermi mi solleva finalmente da ogni dubbio: OGGI È DOMENICA! Ora tutto torna, e mi rassereno; dopo qualche fermata però, mentre contemplo l’ennesima vetrata in frantumi, un moto di compassione mi coglie e, come per incanto, mi precipito fuori dall’autobus per ascoltare il lamento della pensilina:

    «Buongiorno, forestiero! Sì, perché da quel naso che tu porti, dai capelli, dalla bocca, io deduco che tu sia un forestiero, un estero; questo mi fa sperare di potermi confidare con te, di poterti rimettere in tutta flemma la mia passionale geremiade: ecco perché ti ho chiesto di scendere dall’autobus; del resto, non mi sembravi andar di fretta, a giudicare dal modo in cui ostentavi un’aria ignava. Ho scelto te proprio in quanto straniero, perché confido tu un giorno possa riportare, alla gente del tuo Paese esotico, queste mie querule parole».
   «Fossi nato, come son io, cinquantott’anni fa, vedresti forse gli avvenimenti in catastrofica prospettiva, e non con occhio ozioso come fai ora. Dimmi, fai spallucce quando vedi un tappeto di cocci alla fermata, o una bacheca divelta? Pensi forse: «Toh, i soliti giamburrasca», e magari non esiteresti ad accenderti una sigaretta o fingere di leggere l’oroscopo se questi buttassero giù un vetro proprio accanto a te? Tu forse pensi che io, non avendo visto altri luoghi all’infuori del deposito delle pensiline e di questo angolo di strada (giacché della fabbrica non posso avere ricordi, come tu non ne hai del ventre materno), abbia forse una conoscienza del mondo oltremodo parziale; ebbene, caro mio, non solo io leggo i giornali, ma incontro, osservo, ascolto le persone da quasi sessant’anni, mentre tu non hai certo superato il quarto di secolo. Lo sapevi che il 13 dicembre 1974 Malta è diventata Repubblica, o che il 22 giugno 1987 è morto Fred Astaire? Sapevi che quella vecchina, che avanza ora verso di noi con fare mite e gioviale, è stata sposata tre volte, ha fatto crepare il primo marito, ha rovinato il secondo e il terzo è in manicomio da sedici anni? No? Come vedi, io so molte più cose di te».
   «Il 1949 è stato un anno di novità per Nacka, e tra queste vi ero io. Allora non eravamo ancora così ricchi, ma le cose già andavano per il verso giusto. Le corriere verso Stoccolma mi parevano moltiplicarsi giorno dopo giorno, e ora, come vedi, il mio frontone si fregia di ben 18 numeri. Qui ho visto aspettare, salire e scendere politici, calciatori, cantanti, prima che diventassero famosi, insieme a tutta quell’umanità che, per età o per ghiribizzo, non circola in Volvo. Per più di trent’anni ho vissuto in totale idillio: mi appassionavo alla vita della gente, alla bellezza delle svedesi che fioriva e appassiva, mi commuovevo agli schiamazzi dei pargoli, li vedevo crescere e tornare stanchi da scuola; donne in lacrime venivano a sedersi sulla mia panchina, adolescenti vi pomiciavano; qualcuno dopo anni spariva: era morto, aveva traslocato, aveva comprato la macchina; qualcun altro capitava qui per caso dopo due, tre anni, e con un sorriso un po’ amaro indugiava nei ricordi; nel frattempo leggevo moltissimo e imparavo l’inglese, un po’ di spagnolo e tedesco – l’arabo e il polacco proprio non li capisco. Gli anni ottanta sono stati terribili, una gioventù guasta, violenta: prima dell’81 non avevo ancora conosciuto l’onta di un vetro rotto. La compagnia dei trasporti veniva, di tanto in tanto, a darmi una mano di vernice, niente di più; qualcuno poi passava la scopa, lo strofinaccio, cambiava la pubblicità. Gli anni novanta sono passati in relativa calma: la gente aveva di che distrarsi, ma, debbo dire, sono stati anni abbastanza insipidi, stitici».
   «Da qualche tempo, ho letto, siamo in pieno revival ’80. Vedo gli adolescenti vestirsi come vent’anni fa, ed esibire lo stesso comportamento abietto. Quelli di oggi, però, mi sembrano più stupidi, cattivi, incarogniti. Ma dico, non siamo mica nel ghetto qui, questa è Nacka, l’isola dei ricchi, ci si aspetterebbe una gioventù un poco più ambiziosa! Certe cose dovvrebbero accadere a Tensta, Rinkeby o Vårberg, dove i perdigiorno abbondano, ho letto. Cosa mai spinge questi biondini facoltosi, viziatelli, a venire a sfasciarmi tutti i sabato sera? Non so che pensare, nessuno mai che abbandoni qui una bella tesi di dottorato in sociologia sull’argomento, e i giornali non fanno che nicchiare. E poi vi lamentate, soprattutto voi stranieri, del prezzo dei biglietti e degli abbonamenti: «Due euro per una corsa!», «Quarantacinque sterline l’abbonamento!»; ma sapete che prima che tutto ciò cominciasse il mensile costava come una pizza? Di certo ignorate quanto costa un vetro: al cambio va dalle centocinquanta alle trecento euro, perché mica si possono mettere dei vetracci di terz’ordine, bisogna installare quelli speciali, che, se urtati, vanno in mille pezzi; così i ragazzini se spaccano non si fanno male! I danni, quest’anno, passano già il milione di euro: se in Africa ogni minuto muoiono otto bambini, qui ogni quattro ore un adolescente demolisce una vetrata. A Stoccolma non si contano, a Gotemburgo ventuno in una notte, undici a Kalmar, venti a Helsingborg (ancora nell’incubatrice del deposito): capisci che le mie notti non sono più tranquille. I ragazzini si bevono due birre leggere e poi mi fanno visita; il giorno dopo li vedo, torvi; nemmeno si ricordano di quel che han fatto. E io poi magari me ne sto una settimana con i cocci per terra, perché la Compagnia si è anche rotta di venirmi ad aggiustare. Adesso parlano di mettere un sensore anti-vandalo, non so bene come funzioni; io in realtà mi chiedo perché non la facciano finita col vetro e non mettano un bel plasticone indistruttibile, o del cemento armato. Vallo a dire ai tuoi amici, in Australia, in Ispagna, a Sant’Elena; da dovunque tu venga insomma vai a dire che qui in Svezia succede anche questo! E adesso corri, ché sta arrivando il 471: non vorrai mica aspettare il 422, a quest’ora, ti assicuro, non troveresti un posto».


1 commento:

Enrico ha detto...

Che bel blog! Peccato che ci siano così pochi post... Ho sempre avuto una forte simpatia per la Svezia, forse perchè da piccolo ascoltavo death metal a pacchi, e ho sempre desiderato andare direttamente in loco. Per quanto riguarda il libro "Svezia, inferno e paradiso" che citi nel sottotitolo, ti posso dire che io l'ho trovato abbandonato per strada, insieme ad altri volumi, in traduzione spagnola (vivo in Spagna). L'ho immediatamente sottoposto all'attenzione di una amica svedese. La questione è che l'autore era sposato con una norvegese...