È probabile, ma non scontato, che, nella voracia con cui ha ingoiato riviste e pieghevoli, deglutito documentari da edicola, macinato opinioni e ipotesi altrui qua e là nella Rete, l’Italiano – sia esso gitante semplice o Grande Avventuriero, studente di lingue vikinghe o ricercatore in fuga dalla nostrana indigenza –, alla vigilia della sua partenza per la Svezia, possa essersi imbattuto nell’opera dell’onesto Luigi Scattini, Svezia, Inferno e Paradiso: ebbene, mai titolo fu più azzeccato, perché la Svezia è proprio questo, un Paradiso e un Inferno...

mercoledì 31 ottobre 2007

Società I - Documenti, prego!



   Gli Svedesi, forse, non brillano per spontaneità; presumibilmente la loro giornata non verrà traviata da fatali accidentacci o sùbiti ghiribizzi; se questa sera, tornati a casa, volessero concedersi un boccale di birra forte, è verosimile abbiano provveduto già ieri ad acquistarne. Giacché qui, anche consegnarsi libero ostaggio ai fumi dell’alcole tra le pareti domestiche, è cosa da programmare, da marcare nelle effemeridi, da monitorare, come si dice oggi. Una pennichella pomeridiana può essere fatale: alle sei e mezza in settimana, alle tre il sabato (scordatevi la domenica!), vini, birre e spiriti scompaiono dal mercato: dovevate pensarci prima! Chi proprio non volesse rinunciare all’ubriachezza in pigiama, può sempre ciabattare al supermercato, dove troverà in surrogato leggero (2,8 o 3,5 gradi) le migliori marche di birra, e potrà una volta a casa berne a volontà, secondo il principio addizionale per cui l’orizzonte alcolemico vagheggiato può sempre e comunque essere raggiunto. Per procurarsi queste mansuete bevande, vacue e scialbe se non accompagnate dall’acquavite, null’altro è necessario che dimostrare alla cassa la propria maggiore età; in vista di ciò è bene, quandunque si appaia ancora acerbi, fanciulleschi o rimbambiniti da recentissima tonsura, portare sempre seco il cosiddetto leg, ammiccante contrazione di legitimation, o documento d’identità. Quasi ad esorcismo e scongiuro di patetici mascheramenti, barbe posticce, abbigliamenti senescenti, trampoli o piramidi umane dissimulati da improbabili cappotti, i Supermercati levano ogni dubbio e si riservano l’esame del documento a chiunque sotto i trent’anni; ragion per cui, alla legittima, legale richiesta del commesso, a nulla vale impermalirsi e mortificarsi: è questo, talvolta, il vero prezzo da pagare per una birra in Isvezia.
   Generalmente una esibita canuzie, abbinata magari a ripetuti solchi in viso e senili macule sulle mani, lentezza nei movimenti e problemi con il codice della carta di credito, viene presa per prova certa dell’età dell’affabile libante; almeno di ciò andava certo il signor Henricsson, classe 1930, spettabile cittadino di Gällivare, Svezia del Nord, quando, due giorni fa, alla cassa del supermercato dove aveva fatto la spesa negli ultimi quarant’anni, si è visto chiedere un documento perché, insieme a latte e caffè (tipico: come andare in farmacia e diluire imbarazzati l’acquisto di profilattici con dentifricio e zigulì), aveva deposto sul banco qualche birra leggera. Il dabbene Henricsson, conosciuto per il suo impegno politico e civile da tutta la comunità, non ha affatto tollerato l’insolenza della giovane cassiera; ma questa, in delirio di zelo, ha richiesto il pronto intervento del direttore, il quale, nonostante conoscesse di persona l’onesto anzianotto, ha ribadito la politica del supermercato: «documenti, prego!». Al nostro non è restato che fare qualche passo in più fino al supermercato successivo, filiale della stessa catena per di più, dove nessuno ha osato metterne in dubbio il raggiungimento della maggiore età; la festa dei pensionati, cui le libagioni erano riservate, è stata salvata.
   Certo, l’ardore e la dedizione con cui la Legge, qui in Isvezia, è talvolta esercitata, fa quasi tenerezza. Ricordo pochi mesi fa, alla vigilia della festa di mezza estate, me ne stavo in fila alla cassa di un Systembolaget (lo spaccio statale degli alcolici) con una bottiglia di acquavite e un cartone di birre, quando, giunto il mio turno, fui invitato ad esibire un documento. La mia patente, che finora aveva fatto il suo dovere in altre filiali, venne rifiutata: non v’era traccia della data di nascita. Invitai la cassiera ad un semplice calcolo: se la patente data l’anno 2000, e questo è il 2007, premettendo che la patente non si consegue prima del diciottesimo anno di età, ne deriva che come minimo io ho 25 anni. A nulla servì l’elementare ragionamento. La mia amorosa, che se ne stava spazientita con me, documento munita, e ventunenne, si offerse per il lecito acquisto, ma le fu rifiutato col pretesto che è illegale comprare alcol per terzi (io) presunti minorenni. Al che io sfidai la commessa: le dissi che avrei fatto la fila ad un’altra cassa, ma essa, per i poteri da chissà chi conferitegli, decise che sia io che la signorina eravamo banditi dal negozio. A corto di parole, giacché non conosco insulti in svedese, e dubito ne esistano di adeguati, optai per un plateale, ecumenico, onnicomprensibile «Fuck off!», le mollai il malloppo e me ne andai con italica gesticolazione. Corsi a casa, ricuperai il documento, infransi i codici stradali per arrivare in tempo ad un più vicino Systembolaget, afferrai la stessa acquavite, la stessa cassa di birre, scelsi una commessa dall’aria zelante (rifiutai di proposito il giovane capellone), e pagai senza che mi venisse richiesto di esibire alcunché. Forse che l’ira m’aveva fatto più senile...

mercoledì 17 ottobre 2007

Costume II - Il Sacco di Nacka

    Vi sono delle volte in cui mi sveglio, e, senza sapere bene che giorno sia, esco di casa. Ancora intorpidito, fatico a tenere gli occhi aperti; la luce e l’aria fesca mi fanno talora lagrimare, mentre mi stiracchio e claudico ai primi passi nel vialetto. In strada qualcosa però non torna: non v’era forse fino a ieri un bel divieto di sosta, torreggiante placido sul quel palo lì all’angolo (mi pare quasi disdicevole, quel palo ora ignudo, fu alabardiero della ragion di Strada)? E perché quella transenna, che se non erro villeggiava da tempo imprecisato tra i cespugli della rotonda, indugia ora oziosa in mezzo alla corsia? Sta forse improvvisando una serrata anticarro? Perplesso mi figuro che essa voglia per così dire proteggere quegli spartitraffico che, un tempo allineati con perizia lungo il ciglio stradale, solevano scoraggiare il parcheggio in pieno cantiere, e che giaciono ora qua e là ad onta e sprezzo degli automobilisti. Ma quella non è la rete del parcheggio del supermercato? Languisce estenuata, supina sull’asfalto dirimpetto all’ospedale, e con quella canaglia del cassonetto per di più! Insomma, Sodoma e Gomorra, Woodstock e Caporetto, il tutto alle undici di mattina di un normale... Confesso di non aver ancora capito che giorno sia, ma ho i miei sospetti: comincio a congetturare, e avanzo, così assorto, sino alla fermata dell’autobus dietro l’angolo, ma trasalisco quando, pensandomi al riparo della pensilina, un’auretta gelida m’investe. Che il vento si sia fatto più callido stamane? Non dovrebbe la pensilina provvedere a proteggermi e vezzeggiarmi, a consolarmi e magari intrattenermi nello spleen dell’attesa del prossimo autobus? Mi volto allora, stizzito, verso il vetro, e noto che il vetro oggi non c’è. Ei fu. Ne rimane un cumulo di cocci, migliaia e tutti di uguale misura, assembrati nottetempo da un qualche fulgido netturbino. L’autobus arriva con lodevole puntualità, e una volta a bordo decido di mettermi comodo agli ultimi posti. Ma quel che trovo oggi è un vero salotto! Ho tutto lo spazio di scivolare, accavallare le gambe e sbracarmi; una vera pacchia: ma che succede? Oggi manca una coppia di sedili (hanno forse fatto fuitina?); cerco spiegazioni ma i sedili restanti si chiudono in omertoso silenzio; del resto hanno una pessima cera, a quasi tutti manca qualcosa, un bracciale, l’imbottitura, la tappezzeria, portano orrendi tatuaggi e dissimulano – male – birre vuote, cartacce, pezzi di salsiccia. Ma l’immancabile rigurgito essiccato che uno di essi tentava di nascondermi mi solleva finalmente da ogni dubbio: OGGI È DOMENICA! Ora tutto torna, e mi rassereno; dopo qualche fermata però, mentre contemplo l’ennesima vetrata in frantumi, un moto di compassione mi coglie e, come per incanto, mi precipito fuori dall’autobus per ascoltare il lamento della pensilina:

    «Buongiorno, forestiero! Sì, perché da quel naso che tu porti, dai capelli, dalla bocca, io deduco che tu sia un forestiero, un estero; questo mi fa sperare di potermi confidare con te, di poterti rimettere in tutta flemma la mia passionale geremiade: ecco perché ti ho chiesto di scendere dall’autobus; del resto, non mi sembravi andar di fretta, a giudicare dal modo in cui ostentavi un’aria ignava. Ho scelto te proprio in quanto straniero, perché confido tu un giorno possa riportare, alla gente del tuo Paese esotico, queste mie querule parole».
   «Fossi nato, come son io, cinquantott’anni fa, vedresti forse gli avvenimenti in catastrofica prospettiva, e non con occhio ozioso come fai ora. Dimmi, fai spallucce quando vedi un tappeto di cocci alla fermata, o una bacheca divelta? Pensi forse: «Toh, i soliti giamburrasca», e magari non esiteresti ad accenderti una sigaretta o fingere di leggere l’oroscopo se questi buttassero giù un vetro proprio accanto a te? Tu forse pensi che io, non avendo visto altri luoghi all’infuori del deposito delle pensiline e di questo angolo di strada (giacché della fabbrica non posso avere ricordi, come tu non ne hai del ventre materno), abbia forse una conoscienza del mondo oltremodo parziale; ebbene, caro mio, non solo io leggo i giornali, ma incontro, osservo, ascolto le persone da quasi sessant’anni, mentre tu non hai certo superato il quarto di secolo. Lo sapevi che il 13 dicembre 1974 Malta è diventata Repubblica, o che il 22 giugno 1987 è morto Fred Astaire? Sapevi che quella vecchina, che avanza ora verso di noi con fare mite e gioviale, è stata sposata tre volte, ha fatto crepare il primo marito, ha rovinato il secondo e il terzo è in manicomio da sedici anni? No? Come vedi, io so molte più cose di te».
   «Il 1949 è stato un anno di novità per Nacka, e tra queste vi ero io. Allora non eravamo ancora così ricchi, ma le cose già andavano per il verso giusto. Le corriere verso Stoccolma mi parevano moltiplicarsi giorno dopo giorno, e ora, come vedi, il mio frontone si fregia di ben 18 numeri. Qui ho visto aspettare, salire e scendere politici, calciatori, cantanti, prima che diventassero famosi, insieme a tutta quell’umanità che, per età o per ghiribizzo, non circola in Volvo. Per più di trent’anni ho vissuto in totale idillio: mi appassionavo alla vita della gente, alla bellezza delle svedesi che fioriva e appassiva, mi commuovevo agli schiamazzi dei pargoli, li vedevo crescere e tornare stanchi da scuola; donne in lacrime venivano a sedersi sulla mia panchina, adolescenti vi pomiciavano; qualcuno dopo anni spariva: era morto, aveva traslocato, aveva comprato la macchina; qualcun altro capitava qui per caso dopo due, tre anni, e con un sorriso un po’ amaro indugiava nei ricordi; nel frattempo leggevo moltissimo e imparavo l’inglese, un po’ di spagnolo e tedesco – l’arabo e il polacco proprio non li capisco. Gli anni ottanta sono stati terribili, una gioventù guasta, violenta: prima dell’81 non avevo ancora conosciuto l’onta di un vetro rotto. La compagnia dei trasporti veniva, di tanto in tanto, a darmi una mano di vernice, niente di più; qualcuno poi passava la scopa, lo strofinaccio, cambiava la pubblicità. Gli anni novanta sono passati in relativa calma: la gente aveva di che distrarsi, ma, debbo dire, sono stati anni abbastanza insipidi, stitici».
   «Da qualche tempo, ho letto, siamo in pieno revival ’80. Vedo gli adolescenti vestirsi come vent’anni fa, ed esibire lo stesso comportamento abietto. Quelli di oggi, però, mi sembrano più stupidi, cattivi, incarogniti. Ma dico, non siamo mica nel ghetto qui, questa è Nacka, l’isola dei ricchi, ci si aspetterebbe una gioventù un poco più ambiziosa! Certe cose dovvrebbero accadere a Tensta, Rinkeby o Vårberg, dove i perdigiorno abbondano, ho letto. Cosa mai spinge questi biondini facoltosi, viziatelli, a venire a sfasciarmi tutti i sabato sera? Non so che pensare, nessuno mai che abbandoni qui una bella tesi di dottorato in sociologia sull’argomento, e i giornali non fanno che nicchiare. E poi vi lamentate, soprattutto voi stranieri, del prezzo dei biglietti e degli abbonamenti: «Due euro per una corsa!», «Quarantacinque sterline l’abbonamento!»; ma sapete che prima che tutto ciò cominciasse il mensile costava come una pizza? Di certo ignorate quanto costa un vetro: al cambio va dalle centocinquanta alle trecento euro, perché mica si possono mettere dei vetracci di terz’ordine, bisogna installare quelli speciali, che, se urtati, vanno in mille pezzi; così i ragazzini se spaccano non si fanno male! I danni, quest’anno, passano già il milione di euro: se in Africa ogni minuto muoiono otto bambini, qui ogni quattro ore un adolescente demolisce una vetrata. A Stoccolma non si contano, a Gotemburgo ventuno in una notte, undici a Kalmar, venti a Helsingborg (ancora nell’incubatrice del deposito): capisci che le mie notti non sono più tranquille. I ragazzini si bevono due birre leggere e poi mi fanno visita; il giorno dopo li vedo, torvi; nemmeno si ricordano di quel che han fatto. E io poi magari me ne sto una settimana con i cocci per terra, perché la Compagnia si è anche rotta di venirmi ad aggiustare. Adesso parlano di mettere un sensore anti-vandalo, non so bene come funzioni; io in realtà mi chiedo perché non la facciano finita col vetro e non mettano un bel plasticone indistruttibile, o del cemento armato. Vallo a dire ai tuoi amici, in Australia, in Ispagna, a Sant’Elena; da dovunque tu venga insomma vai a dire che qui in Svezia succede anche questo! E adesso corri, ché sta arrivando il 471: non vorrai mica aspettare il 422, a quest’ora, ti assicuro, non troveresti un posto».


giovedì 27 settembre 2007

Costume I - Lo Stallone e l'Esarca



   «Vero stallone da monta si offre a coppie con lui sottomesso e lei vera troia in calore da soddisfare». Oppure: «38, 181, 75, 19 cm, bel tipo classico-giovanile. Cerco slave porc. disinibit. passivo tra 18-45 anni in forma (in jeans) per sborr. senza menate in gola con ing., scop., piss, annusare calzini e piedi, pop., ecc.., anche in posti anonimi». Oppure: «34enne magro, maschile insospettabile cerca cagatori feeders in zona *** per farsi cagare in faccia e in bocca (con ingoio parziale e/o totale, ma cio' dipendera' dalla situazione).Gradite lunghe sessione x leccare il culo anche con sgabello senza fondo/rimchair. Se c'è feeling anche pasto giornaliero x nutrimento a stomaco vuoto abitualmente non ospito. Oltre alla merda, se richiesto, anche situazioni sm con insulti pesantissimi, fustigazione rituale (schiena/culo/gambe) con pause e gradualità, pioggia dorata, sputi e altre pratiche disciplinari. Ma io cerco principalmente merda e adorazione del culo. Graditi (ma non indispensabili) robusti e calvi». O ancora: «19enne fidanzata cerca donna esperta per iniziazione all’amore saffico».
   La disamina degli appelli, dei bandi e dei proclama che affollano le bacheche del fantasma erotico italiano rivela un consorzio umano variopinto, molteplice, inquietante quanto sotterraneo. I registri spaziano con disinvoltura dal grottesco al sublime (una signora di Milano tiene a precisare il proprio amore per l’architettura copta, per la lirica provenzale e per la teologia negativa prima di dichiararsi «maiala da monta» in ansia di «spompinare»); gli stili, dal letterario, di matrice per lo più libertina, al telegrafico e al curricolare; il palato, in base all’esperienza del postulante, più o meno fino – dal semplice incontro piacevole all’irrorazione di un piede misura 41. Assai comune è l’uso di metafore attinte all’universo zoologico (equino, bovino e suino in ispecie) o meccanico (attrezzi da perforazione e demolizione), e dell’ostentazione della professione a garanzia della prestazione («ingegnere 38enne», «avvocato divorziato», ma giammai «netturbino 42enne» o «aitante pony-express»). Tale versicolore moltitudine è – ahinoi! – confinata, in Patria, nei sottoscala della Rete, nei retrobottega del lecito, nell’inoperosità notturna delle zone industriali come nelle modeste latrine delle aree di servizio. Impossibilitati ad emergere, ad organizzarsi in gratuita comunità, gli incalliti del concordato amoroso debbono contentarsi delle vie effimere in cui la generale disattenzione li confina. Da commosso lettore di Leopoldo Masoch, ho sempre nutrito una schietta simpatia per l’amor contrattuale, e provo gran pena per le tribolazioni cui il cittadino è sottoposto qualora voglia trovare leggitima soddisfazione al proprio eteroclito desiderio; essendovi poi nel Bel Paese innumeri smaliziati furbastri, pronti a convertire in facile lucro ciò che più d’ogni cosa dovrebbe spettare come bene inalienabile, diventa solare l’inaffidabilità di gran parte delle fonti, e sempre lecito il sospetto!
   Ora, essendomi io trasferito in un Paese – a detta dei più – civile, non posso fare a meno di segnalare un’iniziativa che, per mole, efficienza e credibilità, prende la forma di uno dei tanti servizi al cittadino che hanno reso famoso il modello svedese. Perché ciò che è gratuito (sic!), centrale, distribuito sul territorio e a tutti accessibile non può essere chiamato altrimenti. È il Klubb6, il cui nome non deve fuorviare: trattasi non di un gaudente esarcato, ma dello spensierato dopolavoro di una intera nazione (il numero 6 in svedese è sex). Qui la letteratura da vespasiano non ha ragione d’essere: come nei più diffusi siti di amicizie, si sceglie un’identità, la si supporta di un’immagine e di una presentazione; non v’è bisogno di specificare ciò che più si ama ingerire o quanti giorni debba essere portato un indumento affinché ottenga l’effetto desiderato: un formulario permette ad ogni iscritto di barrare le caselle che più si avvicinano al proprio fantasma (il semplice orientamento sessuale, la disponibilità telematico-audiovisiva, le categorie-madre delle pratiche amorose, senza entrare nello specifico patologico, e, infine, la presenza di tatuaggi e piercing lungo il proprio corpo), mentre la grande eloquenza è affidata alle immagini, che si possono proporre in quantità imprecisate, e ai filmati, alcuni dei quali veri gioiellini di mise en scène. Le poche righe di presentazione vengono spesso spese per parlare di sé, più che per circoscrivere le proprie passioni: «mi piace il mare», «i Duran Duran», «sono allegra, curiosa», poi citano una canzonetta, una frase fatta, tanto a che serve parlare troppo quando – chi per guardare, chi per parlare, chi per incontrare – ci si trova tutti nel Cenacolo della Concupiscenza? Come dire, al Circolo degli Amanti del Sigaro mica si parla solo di humidor, di Ammezzato Garibaldi o di Vegas Robaina; si cerca di fare amicizia tra persone di pallino comune.
   L’atmosfera del Klubb6 è giocosa, distesa. Capita di vederne delle belle: un bianchiccio ragioniere a cui non si darebbero due lire fornica, mascherato di vinile, con due proterve valchirie, una signora un po’ avanti con gli anni si passa lo smalto nero alle unghie dei piedi; un’aerea diciottenne non perde l’occasione di mostrare come l’ottavo mese di gravidanza non significhi privarsi della spensierata giovinezza; non mancano però le mascherate e i giochi di ruolo più scontati, e in genere i maschietti sono i meno fantasiosi (migliaia di foto di soli apparati, tutti di poco dissimili l’uno dall’altro). A che pro parlare di questo che io considero un servizio, in questo blog? A beneficio del Turista, naturalmente! Mi capita, passeggiando la notte per le vie della città, all’ora di chiusura dei bar, specie se in serate poco movimentate (in Svezia i giorni di bisboccia sono il mercoledì – che è chiamato lilla lördag, piccolo sabato –, il venerdì e il sabato), di incrociare esigue comitive di Italiani, ubriachi e afflitti dalla mancata conquista, impossibilitati a proseguire la serata altrove e ancora così desiderosi di fraternizzare con una qualche biondina indigena; provo allora un sincero intenerimento per questi avventurieri dal sogno infranto. Perché, va detto, se in Svezia la sessualità è un po’ più scapigliata che in Italia, non significa che le magnifiche fanciulle di qui stiano esattamente aspettando la venuta del Fauno nostrano, che spesso non mastica nemmeno quel minimo di inglese che la situazione richiederebbe. Gli Italiani commettono spesso un errore grossolano: vengono a gruppi di quattro, cinque, e quando sono soli o in due – in nome dell’italica fratellanza – fanno gruppo all’ostello con altri Italiani: e l’esito dell’impresa va subito a monte, si passerà la serata ad indicare, comparare e soppesare caviglie, glutei, pere, meloni ed arsenali vari, e ad esortare a «tenere alta l’asta del vessillo tricolore». Inoltre, per atavico feticismo del centro storico, essi amano aggirarsi per Gamla Stan, la città vecchia (in realtà uno dei luoghi meno interessanti della città, e assolutamente a bassissima percentuale di svedesi), quando i veri luoghi della notte si trovano sparpagliati per altri più moderni quartieri. A fine serata sarà nella maggior parte dei casi rimasto il portafogli vuoto, il ricordo di qualche fugace scambio di parole, e la speranza di un giorno migliore.
   Mio caro anelante Turista, spero vivamente di averLe qui reso piccolo ed umile servigio! Mi auguro che qualora Ella volesse, con ribaldi propositi, approdare in terra di Svezia, non Si lasci, come aveva vagheggiato, trascinare da un incerto caso, ma, da persona avvertita e risoluta – come confido Ella sia –, armato di vocabolarietto, entri a far parte dell’allegro Klubb6!

mercoledì 26 settembre 2007

Intermezzo - Il bello della diretta

Per gli amanti della pratica del puking, ecco quanto è successo qualche notte fa sul quarto canale della televisione svedese... Protagonista la simpatica Eva Nazemson, conduttrice del programma Nattliv (vita notturna).

giovedì 20 settembre 2007

Gastronomia I - Gli accidenti dell’aringa fermentata



  Forse la Prudenza – se non l’avessi gettata dal finestrino nei pressi del confine austriaco alla mia partenza per la Svezia, sette mesi fa – mi avrebbe potuto suggerire di esordire queste mie cronachette svedesi sciorinando una qualche locale meraviglia; ma, da che non sento più il suo fiato sul collo, amo prendermi certe libertà. Nell’immagine qui sopra è una latta di Surströmming, una specialità, se così vogliamo chiamarla, del grande Nord svedese. Pecca di ingenuità chi si adagia sulla facile equazione “Nord uguale a salmone”: nelle acque suebiche v’è un solo re, lo Strömming o aringa del Baltico. Questo pesce, ben più delizioso del suo cugino atlantico, proposto sino allo sfinimento in ogni menù che voglia dirsi svedese – marinate all’aceto, alla senape, alla crema di acciughe, al limone, fritte nel burro, infornate, grigliate, ripiene, in tortino... (tipico del buffé natalizio è un intero tavolo di sole aringhe, baltiche e non, proposte nei modi più disparati) –, e ancora troppo grassoccio perché il palato mediterraneo se ne raccapezzi (non si sposa affatto col pomodoro, con l’olio d’oliva!), trova, nelle terre del Norrland, la sua ideale collocazione in migliaia e migliaia di queste latte. E, ahimè, raggiunge gli scaffali dei generi alimentari di tutto il Paese. Le aringhe, pescate in primavera, vengono immerse in barili di salamoia per un paio di mesi, previa decapitazione; la fermentazione prosegue poi nelle latte. In onore dei tempi, non così lontani, in cui la Svezia era un Paese poverissimo, il sale si usa ancora con commovente parsimonia: quanto basta perché il pesce non imputridisca; se la corruzione delle carni è così scongiurata, ben altri accidenti rendono l’apertura di una latta di Surströmming quanto meno problematica.
   A partire dalla sua commercializzazione, il terzo giovedì di agosto, si può notare, passando quotidianamente dallo scaffale del pesce di un qualsisasi supermercato, una progressiva e minacciosa ovalizzazione delle latte. Tanto minacciosa che la presenza di queste latte a bordo di un qualsiasi aereo di linea, mai veramente gradita, è al giorno d’oggi severamente bandita: il turista che volesse a tutti i costi provarne, dovrà contentarsi di consumarne in loco, e di raccontarne soltanto ai suoi cari, se questi saranno disposti a credere ad una storiella così agghiacciante. Ciò che succede all’interno della latta, sarebbe cosa da non dirsi, ma non resisto: i batteri della fermentazione producono anidride carbonica (mai simpatica da respirare) e tutta una serie di indegne porcherie che farebbero la gioia di quella specie di bambini cattivi, monelli, disadattati che non trovano di meglio che perseguitare il prossimo: l’acido propionico (sudore umano, pesticidi), l’acido solfidrico (quello che puzza di uova marce, il cui fetore è in grado di annientare il nervo olfattivo, o quanto meno provoca tosse, confusione, perdita di appetito), l’acido butirrico (vomito) e l’acido acetico. Ed ecco perché un tale ordigno è per sempre bandito dai cieli: un paio di casi di perdite del liquame a bordo di aerei di linea sono bastati per scongiurarne ogni futuro traffico, le spese di pulizia essendo state più che onerose. Il divieto assoluto come unico scampo ad una ennesima tassa sull’aringa fermentata per tutti i voli dalla Svezia. Un avveduto liceale nostrano piangerà il provvedimento: al ritorno dalla ilare gita scolastica, non potrà più, al negozietto dell’aeroporto, infilare nello zaino con ghigno beffardo una di queste temibili latte, la cui apertura avrebbe salvato per l’imminente verifica di matematica: poche gocce di salamoia sui muri, sotto i banchi, sul registro, e la classe sarebbe stata immantinente evacuata, e sull’edificio intero sarebbero stati posti i sigilli di ASL e Questura...
   Per quanto riguarda la mia poco decorosa esperienza, posso dire di essere stato avvisato. Gli Svedesi della Svealand e della Götaland (del Centro e del Sud, per intendeci) me ne avevano narrato a sufficienza gli orrori: pesce marcio, fetente, un vero cesso. Se non sono stato così accorto da dare loro troppo spago, e per pura spocchia mi sono lanciato nella degustazione, ho almeno avuto l’umiltà di seguire un consiglio, datomi in amicale sincerità: assolutamente mai aprire una latta di Surströmming in casa! Le stesse forze oscure che tendono la scatola metallica fino all’ovalizzazione, oltre a liberare il deprecabile fetore di cui sopra, possono, al momento dell’apertura, sgorgare in una rosastra fontana di putrido liquame, annaffiando voi e tutti gli invitati, ma quel che è peggio, lasciando sulle pareti domestiche l’indelebile marca del loro passaggio. Per capirci, aprire una latta di aringa fermentata richiede le stesse precauzioni che aprire una birra che vi sia caduta dall’ottavo piano. Descriverò ora come è uso comsumare tale prelibatezza. Mio alleato nel cimento è stato l’amico
Scampaforche, venutomi a visitare con tanto di compagna per qualche giorno qui a Nacka. Ardito buongustaio, non si è sottratto all’impresa, nonostante ne conoscesse i perigli. Per prima cosa, praticare con l’apriscatole un foro minuscolo in direzione opposta alla vostra, dando le spalle ai commensali; lasciare sfiatare per un minuto circa, resistendo alla tentazione di inalare (ricordate il nervo olfattivo!). A questo punto incidere con convinzione la latta e lavorare di apriscatole: dopo pochi secondi il miasma avrà già messo a dura prova il vostro intestino e la vostra motivazione. Dopo queste tribolazioni, sollevare il coperchio: nessuna piacevole visione (se non vi siete sballati di acido solfidrico) verrà a consolare l’onesto sforzo: il pesce si intravvede appena, sepolto in una atroce palude stigia. Con una forchetta, sollevare un pesce dalla coda (fare attenzione a non spalmarsi le budella penzolanti sui calzoni) e riporre su un tagliere, o meglio su di un piatto che non utilizzerete mai più; aprire l’esemplare, pulire, sfilettare e fare a pezzetti molto piccoli – delle dimensioni del vostro coraggio, per intenderci. Per la degustazione saranno state bollite patate novelle (mandelpotatisar, le patate allungate, “a forma di mandorla”), tagliate cipolle rosse a cubetti, preparata della crema acida (gräddfil) per “sciacquare” la bocca, birra fresca ed acquavite. Aringa, cipolla e patata tagliata a tocchetti verranno messi qua e là su del tunnbröd, una specie di piadina del Norrland. Per quanto riguarda il gusto, non è così indecente: un generico sapore di pesce crudo e mare. Non troppo dissimile dal mio grande amore, l’acciuga sotto sale. Il problema è l’odore. Provate a pensare alle amenità olfattive di cui ho parlato, fuoriuscire dalla vostra bocca. Nè la crema acida, nè l’acquavite vi salveranno dalla più spaventosa alitosi della vostra vita, un piccolo e inenarrabile Armageddon dentro di voi. Pensate ora ad una di quelle meravigliose ragazze del Norrland, altissime, biondissime, giunoniche: un invito al bacio. Pensatele al termine di questo sereno spuntino...
   Se spero di non avervi rovinato l’immagine della donna nordica (che, non è detto vada ghiotta di aringhe fermentate), spero di avervi avvertito dei pericoli dello Surströmming. Non è quindi il caso di fare gli spavaldi: se qualcuno vi invitasse a provarne, declinate con garbo. Se non siete vikinghi, non potrete capire. Il vicino del piano di sopra, sceso in cortile verso il nostro banchetto, ci spiega: non è una prelibatezza, è una tradizione (lui ne va ghiotto, ma è scusato, ha la mamma del Norrland). Resta da chiedersi come facciano, lassù, i conti con tanto lezzo. Sarà per antica sapienza, sarà per ripetuto ed endemico incidente, ma mi viene il sospetto che un buon modo per affrontare una simile pietanza sia di amicarsi l’acido solfidrico, e abdicare una volta per sempre l’olfatto.